L’Oro per Loro- Diario di viaggio, secondo giorno a Mindoro di Rosalba Mirci

3 Novembre 2024 – Riflessioni del Mattino

Questa mattina, mentre facciamo colazione, Suor Rosanna mi racconta delle missioni che le suore portano avanti nei contesti più estremi, da qui nelle Filippine fino al Vietnam, al Myanmar. Da Mindoro coordina il loro operato, sostenendole anche nei luoghi dove il rischio è costante e la loro stessa presenza è un atto di coraggio.
Con calma, mi descrive il Vietnam, un paese dove la repressione non lascia tregua. Le misure repressive non accennano a diminuire e la recente normativa sulla sicurezza informatica obbliga le compagnie straniere di telecomunicazioni a cancellare ogni contenuto considerato “inappropriato” entro 24 ore. Chi critica apertamente il governo rischia la prigione, ma anche ogni espressione di dissenso è pericolosa. Il direttore della scuola in cui le missionarie insegnano è stato arrestato per aver appena accennato a un malcontento. La scuola è sorvegliata da spie che registrano tutto, persino le espressioni facciali. In questo clima, le suore portano avanti lo stesso la loro missione. Pur non potendo fare catechesi e costrette a nascondere il loro abito, insegnano ai bambini, offrendo loro strumenti concreti per affrontare la vita. Il loro obiettivo è dare a quei bambini una formazione di base, affinché possano proseguire negli studi e avere un futuro.

Poi Suor Rosanna mi parla del Myanmar. Dopo il colpo di Stato militare del 1º febbraio 2021 è precipitato in una crisi politica e umanitaria profonda. La giunta militare ha destituito il governo civile, e da allora il paese è teatro di violenza, repressioni e conflitti armati. La situazione è disperata, e le suore lì hanno vissuto momenti drammatici: la loro scuola è stata bombardata, costringendole a fuggire nella foresta con i bambini. Ora vivono in un campo profughi, dove continuano a prendersi cura dei piccoli. I loro passaporti sono scaduti, senza alcuna speranza di rinnovo, ma non si allontanerebbero comunque. La loro missione è chiara: rimanere, proteggere i bambini e resistere, anche in condizioni impossibili.

Questa conversazione mi lascia profondamente colpita. Le sfide che affrontiamo qui a Mindoro sono diverse, ma lo spirito di dedizione che percepisco è lo stesso. La forza di queste donne supera ogni confine: in Vietnam, in Myanmar, o qui nelle Filippine, la loro missione è una resistenza silenziosa e inesorabile.

Verso Sitio Tadlok

Oggi partiamo alla volta di altri villaggi. Suor Rosanna non viene con noi, è rimasta alla missione a lavorare. Mi accompagnano Suor Aldine e tutte le insegnanti del progetto. Destinazione: Sitio Tadlok. Ci aspettano tre quarti d’ora di strada minuti, e siamo già in viaggio dalle 8 del mattino, mentre l’isola comincia lentamente a svegliarsi.

Lungo la strada, la vita si rivela in piccoli dettagli: i sacchi di riso sono già pronti sul ciglio della strada, in attesa di essere sparsi sull’asfalto, dove il sole caldo del mattino li asciugherà. I tricicli – piccole moto modificate con una cabina laterale per ospitare due o tre passeggeri – zigzagano in cerca di clienti, spostandosi tra villaggi e mercati. I furgoncini, con i cassoni posteriori gremiti di operai spesso in piedi e aggrappati alle sponde, avanzano verso i campi.

 

È un risveglio pacifico, avvolto in una routine semplice e rassegnata, dove ogni gesto sembra ripetersi come un rituale antico, senza clamore, solo necessità.

Il pulmino è pieno di vita. Le insegnanti, sedutevicine, si scambiano racconti nella loro lingua e ridono di cuore. La maggior parte di loro è nata e cresciuta qui a Mindoro e vive nei villaggi che scorgo dalla strada. Hanno avuto una vita difficile, eppure ridono con una gioia e una leggerezza che mi affascina e che, un po’, mi stupisce. Saprei io, donna occidentale che ha avuto opportunità che qui nemmeno riescono a sognare, ad affrontare con uguale leggerezza difficoltà simili a quelle che loro affrontano quotidianamente?

Dalla mia parte del mondo, siamo così abituati a lamentarci per ciò che ci manca, e spesso dimentichiamo un principio semplice: non devi essere infelice per ciò che non hai, ma felice per ciò che hai. E in questo momento, vedo queste ragazze, che ogni giorno percorrono queste strade per raggiungere le scuole e insegnare, darmi una lezione di vita importante.

E lo hanno fatto con risate sincere, piene, nate dal cuore.

La strada per arrivare alla scuola è sterrata, scoscesa. Il panorama fuori è sempre lo stesso: baracche, mercatini della frutta, decine e decine di panni stesi. Il verde della vegetazione fa da contrasto a tutta quella povertà, quasi a volerla compensare. Attraversiamo un paesaggio fatto di distese di vasche naturali per l’allevamento del pesce. Ci sono cicogne ovunque. Il panorama si perde a vista d’occhio, inframmezzato dalle case dei residenti: un cumulo di lamiere e stracci.

A un certo punto ci fermiamo, Suor Aldine mi spiega che dobbiamo continuare dalla spiaggia. Mi chiede se preferisco prendere il triciclo o la barca. La seconda ipotesi mi atterrisce, io soffro il mal di mare. Opto per il triciclo. Due tricicli per otto persone.

Attraversiamo la spiaggia di sabbia bianchissima.

Il mare è calmo, ci sono dei bambini che giocano in acqua, chi cerca di prendere pesci, chi fa proprio il bagno.
Nell’ aria c’è odore di bruciato. Copre il gradevole odore di salsedine. Anche qui l’essere umano fa di tutto per annullare la bellezza della natura.

Ci fermiamo sul Tadlok Bridge, una delle attrazioni del posto. È un ponte pedonale sospeso a spessi cavi d’acciaio rossi di ruggine. Si attraversa calpestando un rustico, anche troppo rustico, impalcato di tavole di legno. È molto alto, molto vecchio, oscilla parecchio. Suor Aldine, divertita, mi chiede: problemi con l’altezza? No, rispondo. E penso invece a mio marito. Anche solo con la mia descrizione avrà le vertigini.

La nostra piccola carovana entra nel villaggio sulla spiaggia. C’è musica ad altissimo volume; Suor Aldine mi dice che c’è festa nel villaggio. No, non è per noi. Non ancora, almeno. È domenica.

 

La Scuola di Tadlok

La scuola di Tadlok sorge nel cuore del villaggio. Mi raccontano che, tra tutti, sono state le madri dei bambini a mostrare il maggiore entusiasmo per le classi di recupero. Forse perché sono le più povere, quelle che vivono nelle zone più remote e difficili da raggiungere. Le persone che, maggiormente, sentono il desiderio di un miglioramento delle condizioni di vita. Le suore mi confessano di aver esitato prima di includere questo villaggio nel progetto, soprattutto per le distanze. Sembrava quasi una sfida insormontabile. Ma di fronte a un tale entusiasmo, come si poteva dire di no?

Ad oggi, bambini iscritti alle classi del progetto a Tadlok sono 157, ai quali si aggiungono 57 bambini dal vicino Sitio Banga, un altro villaggio ancora più remoto e isolato di questo. Le madri ci tengono davvero che i loro figli vadano a scuola, e molte di loro li accompagnano personalmente, con una dedizione testarda. Loro non hanno avuto la possibilità di studiare, ma se c’è anche solo una speranza di dare ai figli un’istruzione, non se la lasciano sfuggire, costi quel che costi.

Le insegnanti mi raccontano che anche il direttore della scuola è stato entusiasta di questo progetto. Conosce bene la realtà dei bambini che non possono frequentare a causa dei costi che le loro famiglie non possono sostenere.

Per rendere tutto più accessibile, ha aperto le porte della scuola gratuitamente, offrendo i locali il sabato e la domenica. In quei giorni, la scuola diventa ciò che ho sempre creduto debba essere: un luogo di cultura e istruzione, certo, ma anche di comunità e aggregazione, dove le  famiglie possono sentirsi unite.

Qui ci sono banchi, sedie, libri, quaderni, un mappamondo e persino un modello del corpo umano.
Ci sono i bagni e addirittura, acqua corrente. Tutto quel che serve per accogliere questi giovani e dare loro una possibilità.

È un luogo che incarna il suo vero scopo: un trampolino di lancio per le vite delle nuove generazioni.

L’edificio porta i segni del tempo: sulle pareti manca qua e là un po’ di intonaco, e le sedie sono vecchie e malmesse, ma ogni classe è attrezzata con tutto il necessario. C’è persino una LIM. Su uno dei vetri, velato dalla polvere, noto una scritta semplice ma potente: I love my family. Poco sotto, un’altra frase: Reha may love Kevin. Col condizionale. Penso che è appropriato. Chissà se Kevin corrisponderà Reha, mentre l’amore per la famiglia, quello non si mette in discussione!

Poi scopro che il nome dell’autrice della scritta è Reha May. La risoluzione dell’equivoco grammaticale lascia identico il problema. Kevin cosa ne pensa? L’amerà anche lui?

I Bambini di Tadlok

Finalmente, le maestre mi presentano ai bambini, e loro mi salutano in coro, urlando: “Morning Po” (Po è un termine filippino usato per rivolgersi in maniera rispettosa e con deferenza alle persone anziane o in posizione di autorità). Quando scoprono che arrivo dall’Italia, vedo un meravigliato wow disegnarsi sui volti di alcune bambine. Ce n’è una, in particolare, che attira la mia attenzione: è molto bella, con un vestitino color crema e i capelli sulle spalle. Mi osserva con uno sguardo intenso e mi sorride.

Quando annunciamo che presto ognuno di loro riceverà uno zaino con tutto l’occorrente, vedo nei suoi occhi un luccichio speciale. Mentre tutti esplodono in grida di gioia, lei resta in silenzio, con gli occhi lucidi, e per un attimo sembra guardare verso l’alto, come persa nei suoi pensieri. Mi pare quasi di leggerli: Finalmente, uno zaino tutto mio. Quaderni su cui scrivere, penne vere, magari anche un astuccio… forse una gomma! E un ombrello sotto cui ripararmi… Abbiamo scelto zaini di tutti i colori. Spero davvero che abbia quello del suo colore preferito.

Poi, come un’onda, i bambini mi corrono incontro e mi avvolgono in un abbraccio collettivo,
stringendomi tutti insieme.

È stato uno dei momenti più belli della mia vita.

 

Comu finisci si cunta

Dalle mie parti, quando ci troviamo in una situazione inevitabile, qualcosa che racconterai solo un

 

a volta passata, si dice: comu finisci si cunta – sia quel che sia. Mi comunicano che è ora di andare, e stavolta non c’è scampo: dobbiamo prendere la barca. Il mio stomaco si stringe in segno di protesta, ma lo ammutolisco: comu finisci si cunta!

Sorrido e, rassegnata al mio destino, procedo. È una barca da pescatori, col motore; saliamo tutte e ci dirigiamo verso la riva.

Riparata sotto un ombrello – per fortuna, perché il sole picchia – mi sporgo per sfiorare l’acqua, di un azzurro intenso e insolitamente calda. Mentre procediamo verso l’altra sponda, vedo sulla spiaggia un bambino con le ciabatte in mano che corre, seguendo la nostra rotta parallelo alla barca. Mi ricorda un frame di un famoso cartone che amavo da bambina, uno di quelli che trasmettevano all’epoca: una bambina correva accanto all’astronave al decollo, come se inseguendola potesse anche lei volare via.

In quel bambino che rincorre la barca, vedo quella stessa spinta, quel desiderio di scoprire e andare oltre.

Capitan Futuro ogni muro abbatterà,
Capitan Futuro tra le stelle schizzerà…

Un simbolo di libertà, proprio lì, su una barca di pescatori.