L’oro per Loro- Diario di viaggio, terzo giorno a Mindoro di Rosalba Mirci

4 novembre 2024 – Il tocco della Provvidenza

Il lunedì ha lo stesso sapore in ogni parte del mondo: dopo un weekend tranquillo le attività
riprendono e i bambini tornano a scuola. Qui, alla Mother Catherina School, sono in 586 a varcare i cancelli ogni settimana, dal nido alla fine della primaria. In questo luogo, immerso nel verde, ogni angolo racconta una storia di cura e di impegno. Giardini rigogliosi, laghetti con pesci e ninfee, spazi all’aperto dove si respira una pace che sembra quasi irreale, una bellezza inattesa in un’isola così povera.

Tutto qui sembra fatto per abbracciare: una clinica che accoglie chi ne ha bisogno, una grande sala d’attesa dove i genitori si ritrovano, e una serie di edifici indipendenti – palestra, libreria, mensa, caffetteria – che si aprono su un giardino comune, come a ricordare che ogni passo, ogni luogo, qui è parte di un unico disegno.

Ogni dettaglio porta la traccia della comunità, del lavoro fianco a fianco di genitori, suore e di chiunque senta questo luogo come casa. I giochi per i più piccoli, di recente aggiunti grazie alla generosità di tanti donatori, riflettono uno spirito di condivisione che fa di questa scuola qualcosa di molto di più di un luogo di apprendimento. È un luogo in cui le differenze si dissolvono. “Qui non tutti hanno le stesse possibilità economiche, ma qui dentro devono essere tutti uguali,” mi dice Rosanna con la sua abituale pacatezza.

In ogni corridoio, in ogni aula, si sente il battito della vita. I bambini indossano le stesse divise, utilizzano lo stesso materiale scolastico fornito dalla scuola. Non c’è spazio per la disuguaglianza, ma solo per il rispetto e la dignità. Una grande bacheca celebra ogni compleanno del mese, raccogliendo le foto di chi compie gli anni, e per i più piccoli c’è un piccolo dolce ad attenderli, perché qui ogni bambino conta, ogni sorriso è la tessera di un grande mosaico. Penso a come anche noi di ASA, pur venendo da lontano, ci sentiamo parte di questa comunità e facciamo del nostro meglio per contribuire al suo miglioramento. Ricordo uno dei nostri consulenti, che durante uno dei primi viaggi per il progetto si era fermato ad ascoltare le missionarie raccontare della necessità di ristrutturare una parte della mensa, che all’epoca era semplicemente una grande tettoia, senza pareti. Il nostro consulente non si è limitato a dare qualche consiglio: ha disegnato il progetto, visitato i negozi locali per raccogliere preventivi sui materiali e stilato una lista di tutto il necessario. In meno di un anno la mensa aveva pareti, finestre e rifiniture ed è stata chiamata “Hapag ni San Antonio” – La Tavola di San Antonio – in onore del santo, patrono della
generosità e della condivisione.

Che coincidenza significativa – o forse un tocco di Provvidenza – dal momento che il nostro consulente si chiama proprio Antonio.

La clinica

La clinica è un punto fondamentale di questa comunità, ora parte del progetto e attrezzata per offrire cure a chiunque ne abbia bisogno. Grazie al nostro intervento, è stata rifornita di materiale sanitario, medicine e, soprattutto, di uno studio dentistico completo. Finalmente, le persone possono accedere a cure sanitarie di base gratuite, un servizio che era impensabile fino a poco
tempo fa.

Una ragazza mi sorride, con un’espressione tra dolore e sollievo: le sono stati tolti due denti doloranti.
Nell’ambulatorio accanto, una signora di 88 anni è venuta per una visita dermatologica. Piccola e fragile, mi ha colpito per la gratitudine con cui accoglie ogni attenzione. Al termine della visita, chiede di essere benedetta, un gesto per lei profondamente significativo. Ma è Suor Rosanna, appena sentita l’età della signora, che le prende delicatamente la mano e la guida alla propria testa, offrendo a questa “nonnina” l’omaggio e il rispetto che merita. Vago per la clinica e mi soffermo a osservare due stanze ancora completamente spoglie di ogni arredo. Per qualche istante ragiono su come potrebbero essere utilizzate quelle stanze, quali cure vi potrebbero essere erogate. Rosanna e Aldine sembrano intuire quel che mi passa per la testa. Si scambiano uno sguardo e sorridono.

Sorrido anch’io: “Eh, sarebbe bello attrezzare anche queste due stanze. Chissà che la Provvidenza non metta il suo tocco anche qui.

Morta

Andiamo a Morta,” mi dice Suor Aldine. Devo aver fatto una faccia piuttosto perplessa, perché Suor Rosanna è scoppiata in una risata fragorosa. “In realtà si chiama Murtha, ma noi diciamo Morta.”

Murtha è uno dei barangay della municipalità di San José. Qui nelle Filippine, i barangay sono le unità amministrative più piccole, simili ai quartieri o ai villaggi, ciascuno guidato da un barangay captain. Fanno parte di una municipalità più ampia, che coordina e gestisce i servizi per ogni comunità locale.

Per dare vita al progetto, le suore e tutto il nostro staff hanno intrapreso un viaggio di comunità in comunità, percorrendo strade polverose e sentieri battuti, fermandosi in ogni villaggio per incontrare i barangay captain. Con rispetto e pazienza, hanno chiesto il loro sostegno e la possibilità di portare le attività al cuore di ogni barangay. Qui, il consenso dei capitani non è solo una formalità: è un segno di fiducia, un ponte che ci permette di entrare e diventare parte della vita di queste comunità. Senza il loro permesso, nulla sarebbe stato possibile.

E loro, quelli che ci hanno creduto e ci stanno supportando, sono davvero fieri di quello che,
insieme, stiamo realizzando. Ogni barangay captain che ha dato il suo consenso, ogni comunità che ci ha accolto a braccia aperte, ora vede il frutto di questo impegno comune. C’è un orgoglio condiviso, una soddisfazione che si legge negli sguardi, perché ciò che stiamo costruendo non appartiene a noi, ma a tutti loro.

A Murtha si trova uno degli allevamenti di polli che abbiamo finanziato col progetto.

La fattoria che visitiamo è di una coppia molto giovane.

Per arrivare alla fattoria, attraversiamo campi di riso e un piccolo fiume, passando su un ponticello fatto di canne di bambù. Il legno scricchiola sotto i nostri passi, e ovviamente Suor Aldine non perde l’occasione per prendermi in giro: “Mi raccomando, il bambù!” dice divertita, mentre io avanzo con cautela, trattenendo il respiro tra un passo e l’altro.
Mi fermo con la giovane coppia e chiedo se sono contenti del progetto e se hanno bisogno di qualcosa. Mi guardano, gli occhi che brillano di soddisfazione e orgoglio. “Siamo felicissimi”,
rispondono quasi all’unisono. Per la prima volta, spiegano, hanno avuto un capitale da cui partire, una possibilità concreta di costruire qualcosa di loro, e lo stanno facendo fruttare. Questo significa molto soprattutto per le loro due bambine, che in questo momento sono a scuola, ma che
cresceranno con qualcosa di solido alle spalle.

Sorrido, gettando uno sguardo al ponte di bambù che abbiamo appena attraversato, traballante e sottile come un filo sospeso. “Sicuri che non vi serva proprio niente?” domando ancora, con un filo di ironia. Magari, penso tra me e me, un ponte nuovo…

Mapaya

Passiamo infine da Mapaya, un altro piccolo barangay di San José. Le lezioni sono appena terminate e incrociamo un fiume di bambini in divisa che ritornano a casa. Camminano in mezzo alla natura, percorrendo chilometri per arrivare, e quando finalmente raggiungono le loro case è già buio. Non c’è illuminazione lungo le strade; devono fare in fretta per non essere sorpresi dall’oscurità.
Poi ci sono i compiti e infine una semplice cena. Poi a letto. Il giorno dopo si ricomincia, con un ritmo che si ripete senza grandi svaghi o distrazioni. Qui tutto è essenziale. Eppure, quasi tutti hanno un cellulare, tutti connessi, tutti immersi nel flusso infinito della rete, dove gli standard di una società consumistica sfilano senza sosta. Quanto deve essere frustrante, penso, osservare continuamente quel mondo scintillante di cose che non puoi avere, mentre vivi in una capanna con una ciotola di riso per cena.

Mentre ci inoltriamo nei sentieri che portano alla fattoria, il mio sguardo si perde tra le casupole che costeggiano il percorso. Ogni tanto incrociamo dei bambini, seduti a terra a giocare; si fermano e mi guardano con un misto di stupore e, forse, timore, come se fossi un’apparizione insolita. Più avanti, seduta su una panca sotto un albero, c’è una signora molto anziana, così raggomitolata su sé stessa che quasi non si distinguono le sue gambe. La sua figura sembra scolpita dal tempo, come l’albero che la ripara. Al ritorno, una mezz’ora dopo, è ancora lì, immobile, con lo sguardo fisso su un punto lontano, perso in chissà quale pensiero. La sua pelle ambrata, segnata dal sole e dal tempo, contrasta con il bianco intenso dei capelli, un’immagine che sembra sospesa in un mondo tutto suo.

Dalle finestre, spesso prive di vetri, intravedo l’interno delle case. Gli spazi sono colmi di oggetti ammassati, pochi mobili di plastica, quasi mai un tavolo centrale che riunisca le attività della famiglia. C’è un silenzio, un silenzio pesante, colmo di tristezza.

Dalla clinica ci sono arrivati i dati sui pazienti e sulle patologie più frequenti: bronchiti, tosse cronica, soprattutto tra i bambini. Come potrebbero non ammalarsi, mi chiedo, vivendo in queste baracche, con pareti di lamiera o plastica, aperte al vento e all’umidità delle risaie e degli stagni
vicini?

Goats

L’allevamento che visitiamo è quello delle capre, un piccolo universo dove la vita si misura in raccolti e nuovi nati. Due capretti sono appena venuti al mondo, in piedi su zampette ancora incerte, segni delicati di una speranza che qui si rinnova in modo semplice. Accanto a loro la famiglia ha raccolto piccole cipolle rosse, bulbi lucidi simili a gioielli sparsi sulla terra. Somigliano a piccole cipolle di Tropea. Danno un tocco di colore al paesaggio, testimoniano che la bellezza, quando c’è, non si può nascondere.

I proprietari hanno tre figli. Due li vediamo. Il primo gioca accanto alle cipolle. È concentrato a far danzare un legnetto tra le mani. La sorella maggiore, più timida, si nasconde dietro a un albero di papaya. Quando le sorrido, risponde con un sorriso che le illumina per un attimo il viso.

Il padre ci accoglie con orgoglio, raccontandoci del raccolto e delle capre, frutti del lavoro e della pazienza. Qui non si beve latte, né si mangia formaggio. Il caldo rende il latte pericoloso, un rischio che non si può correre. Come se la vita non fosse già abbastanza carica di preoccupazioni e rischi, anche il latte è una minaccia da evitare.

Prima di andare, lasciamo loro delle medicine, un piccolo aiuto per quei bambini che crescono in un mondo dove sono continuamente esposti a rischi. Come segno di ringraziamento, il papà ci offre due sporte di cipolle fresche e due papaye grandi e profumate. Per lui è naturale, un gesto semplice, ma nelle sue mani queste offerte raccontano di una generosità antica, di una gratitudine che nasce dal cuore.

Il sole tramonta lentamente, tingendo il cielo di un rosso profondo e ardente, e io rientro alla missione con il mio carico di pensieri ed emozioni, frutto di un’altra giornata intensa. La sera cala su tutto e sembra avere il potere di azzerare, di riportare ogni cosa al suo stato di quiete. È un momento in cui tutto si sospende, come una pausa naturale che lascia spazio a ciò che verrà. Domani si ricomincia da capo, con il cuore pronto a nuove esperienze.

Per me è un momento di pausa. Per queste persone, invece, è solo il preludio a una nuova giornata di lotta, la ripresa di una battaglia impari con la vita.

E per le suore di questa missione è un altro giorno di semina, un altro passo paziente e silenzioso verso un futuro in cui credono fermamente.